FEDE E RAGIONE

 

 

 

RAZIONALITÀ DELLA FEDE NELLA RIVELAZIONE

L’opera Razionalità della fede nella Rivelazione (Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica) di Antonio Livi(1) fa parte della collana Grande Enciclopedia Epistemologica diretta dallo stesso Livi. La ricerca intende esaminare l’atto di fede cristiana, intesa come assenso della mente alla verità della rivelazione divina, alla luce della logica aletica (= disciplina filosofica che studia il pensiero dal punto di vista del valore della verità del suo contenuto; si veda, dello stesso autore, Verità del pensiero: fondamenti di logica aletica, Lateran University Press, Roma 2002). Lo scopo è di confutare la tendenza ad interpretare la fede cristiana in termini di "fideismo", che è oggi la tendenza dominante.

Il libro, diviso in tre capitoli che analizzano l’atto di fede prima nelle sue diverse forme, poi nella sua specificità nella rivelazione, con una particolare attenzione verso le sue dimensioni razionali. L’opera presenta nella sezione dedicata alle Premesse una chiarificazione su ciò che si deve intendere per conoscenza naturale di Dio ed esperienza religiosa. L’atto di fede ha un carattere conoscitivo e veritativo, da intendersi come assenso della mente a un enunciato non verificabile per diretta esperienza o per ragionamento, ma testimoniato da un teste.

 

CONOSCENZA NATURALE

La conoscenza naturale di Dio è basata su quella originaria e universale esperienza che è parte del senso comune (quel sistema organico di certezze universali e necessarie: il mondo, Io come soggetto, gli altri, la legge morale naturale, Dio) dalla quale trae origine la stessa religione naturale. Questa esperienza originaria, ossia questa conoscenza immediata e spontanea, che è causa della certezza dell’esistenza di Dio quale Causa prima e ultima dell’esistenza delle cose del mondo, è la stessa esperienza religiosa, intendendo con l’aggettivo "religioso" che si tratta propriamente delle conoscenze relative a Dio. Riconoscere che la conoscenza naturale di Dio è basata sull’esperienza e riuscire a distinguerla dalla conoscenza soprannaturale (che trae origine dalla rivelazione divina ed è basata sulla fede), permette di mostrare l’ambiguità del linguaggio attuale quando parla di "fede" a proposito dell’affermazione dell’esistenza di Dio. Il fatto di denominare "fede" la certezza naturale che Dio c’è, ha le sue ragioni in una svolta epocale gnoseologica nella storia della filosofia che ha preso l’avvio con il dubbio universale di Descartes, il quale ha portato ad uno scetticismo radicale riguardo all’esistenza del mondo come qualcosa di "esterno" al pensiero, e ha condotto lo scetticismo post-cartesiano (da Hume a Kant) a considerare meramente soggettiva, come risultato extrarazionale, ogni nozione metafisica.

 

CONOSCENZA SOPRANNATURALE

"Proprio questa inconoscibilità costitutiva di Dio per la ragione umana naturale, consente di concepire la possibilità di una conoscenza soprannaturale derivante dalla rivelazione che Dio stesso fa di sé: tale rivelazione divina (che, se accertata come evento storico e accettata come verità, dà luogo alla fede soprannaturale) è per la ragione una possibilità reale, oltre che un’aspirazione e un sogno, proprio perché la ragione sa che Dio c’è ma non si sa chi è" (p. 15).

L’esperienza religiosa è consequenziale all’esperienza morale ed è a questa legata in modo particolare perché le conferisce il suo significato ultimo: solo Dio, infatti, risponde alla domanda sul bene, perché solo Lui è buono [cfr. Mc 10,18 e Lc 18,19] e la vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite dell’amore di Dio. L’esperienza religiosa manifesta la capacità di totalizzare e di integrare tutta l’esperienza umana perché, come anche quella morale, ha nella sua struttura logica di base la dimensione veritativa. "Il Dio che viene riconosciuto e cercato, il Dio che viene invocato, adorato e obbedito è, per il soggetto umano credente, anzitutto il vero Dio" (p. 23). La quinta certezza del senso comune (Dio esiste) è l’ultima solo in ambito logico, ma è la prima nella gerarchia dei valori ed ha la capacità di dare senso unitario e conclusivo alle certezze che la precedono e dalle quali proviene, così la metafisica nel momento in cui affronta il problema di Dio configurandosi come "teologia naturale", non può non tenerne conto nel suo strutturarsi come sistema coerente.

 

LOGICA DI VERITÀ

Il termine "mistero" non è sinonimo di "assurdo", la sua stessa origine etimologica, dal greco [mystérion] = "verità religiosa nota solo agli iniziati", mostra il suo carattere veritativo che pur non aprendosi alla comprensione di tutti gli uomini, non viene perso. Per questo un soggetto quando accoglie un enunciato non verificabile per diretta esperienza o per ragionamento, ma solo sulla base della testimonianza di un teste credibile, sa di aver acquisito una conoscenza vera. Afferma così Livi: "Nella conoscenza di fede il soggetto, consapevole dei suoi limiti, li trascende affidandosi alla conoscenza altrui. Ma è pur sempre la verità ciò che il soggetto cerca e pensa di trovare con l’atto di fede. La logica aletica è, nel campo della fede, l’unica logica che valga. Non valgono in questo ambito specifico, né la logica estetica, né quella deontica, e tanto meno quella pragmatica" (pp. 29-30).

 

IL MAESTRO

Struttura portante dell’atto di fede è l’atto libero. Decisivo, affinché una persona sia portata a credere nella testimonianza altrui, è il ruolo "morale" del testimone, la sua qualità morale è la sua credibilità visibile come "certezza morale". Riconoscendo la caratteristica strutturale della condotta razionale dell’uomo, che cerca la verità del suo pensiero in tutti i modi possibili avvalendosi anche del dialogo con gli altri uomini, si ritrova nella forma principale della trasmissione del sapere, la figura del "discepolo" caratterizzata dalla fede nel maestro. "Il maestro è capace di far crescere il discepolo nella conoscenza: è un "auctor"; ma occorre che il discepolo riconosca questa sua capacità, e questo riconoscimento si chiama "auctoritas". Nel riconoscere e accettare una "auctoritas", il soggetto arricchisce la sua conoscenza, aggiungendo a quello che personalmente raggiunge con l’esperienza e il ragionamento (scientia e ratio) anche quello che gli comunica chi ne sa di più" (p.32). Bisogna superare il "pregiudizio" razionalistico che ha visto nell’Illuminismo emergere la tendenza generale di non ammettere alcuna autorità e di giudicare tutto davanti al tribunale della ragione. "La verità di un pensiero che ha formulato un giudizio perfettamente adeguato all’evento realizzatosi in un determinato tempo è una verità che resterà sempre tale, anche se la realtà a cui ci si riferiva è cambiata" (p. 42). Con l’evento cristiano si è introdotta una fondamentale distinzione tra fede "umana" e fede "divina". La fede nella rivelazione è essenzialmente fede nella parola di Dio ed il testimone dei misteri da credere è Dio stesso, quindi è qualcosa di assolutamente diverso dalla fede nella parola di qualsiasi persona umana sia pure massimamente autorevole.

 

TRE DIMENSIONI

La fede nella rivelazione divina non è solo un asserto certo, ma è caratterizzato da tre peculiari dimensioni: quella soteriologica, per la quale la fede è in rapporto con il problema della verità religiosa ovvero della salvezza (soteria), quella misterica, che riguarda l’accesso al mistero (mysterion) a ciò che concerne la "vita intima" di Dio e quella cristologica, per cui la fede nella rivelazione è una conoscenza dei misteri della salvezza che passa attraverso la parola dell’unico testimone possibile di tale mistero che è il Verbo di Dio incarnato, che ha conoscenza personale e diretta del mistero e, come Uomo, è accessibile agli uomini e può comunicare con loro servendosi del loro linguaggio.

 

IL VERO SENSO DEL TERMINE "FEDE"

Il termine "fede" riferito al cristianesimo è unico e non va confuso né con l’atto di fede umana, né con una qualsiasi "credenza" religiosa visto che quest’ultima consiste solo nel semplice insieme di esperienze e di pensiero che l’uomo, nella sua ricerca della verità, ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al Divino e all’Assoluto. Il cristianesimo ha il diritto di affermarsi come "la" religione perché non ha origine umana (da un’intuizione o un’invenzione della mente), ma divina. È Dio che si rivela all’uomo in particolari momenti della storia e l’adeguata risposta umana a tale automanifestazione e autodonazione è la fede.

 

LA FEDE È UN SAPERE

La fede nella rivelazione divina è un "sapere" e, al contrario di ciò che si è affermato facilmente da Kant in poi, non esiste alcuna forma di dicotomia tra il "sapere" e il "credere", perché pur essendo un "sapere relativo", consapevole dei propri limiti - perché di mistero si tratta e non di scienza - è allo stesso tempo illuminante e capace di guidare tutta l’esistenza. La fede cristiana è giustamente denominata "fede divina" perché il suo nucleo fondamentale è la testimonianza che Dio stesso dà di sé (cfr. i Gv 5,8-12) (p. 55).

Tommaso d’Aquino ha affermato la struttura personalistica dell’atto di fede del cristiano: esso consiste in un atteggiamento di assoluta fiducia nelle parole di Cristo, una volta accertato che Egli è Dio. La dottrina dei praeambula fidei (preamboli della fede) risale direttamente a Tommaso che nel suo sistema teologico la configura come elemento fondamentale. "[Queste verità] non sono dogmi di fede [articuli fidei] ma costituiscono i presupposti [praeambula] dei dogmi stessi; la ragione è che la fede presuppone la conoscenza naturale, così come la grazia presuppone la natura e ogni perfezionamento presuppone un oggetto capace di essere perfezionato (Summa theologiae, I, q. 2, art. 2)". Tutto ciò significa che non c’è alcuna possibilità di "ritenere vere" le verità della fede se previamente non c’è nella coscienza dell’uomo la certezza circa alcune specifiche verità raggiungibili con la ragione umana. I praeambula fidei costituiscono non le cause efficienti dell’atto di fede, ma solo le condizioni previe necessarie al livello della conoscenza. L’atto di fede presuppone anche il vaglio razionale della credibilità del teste, il quale deve mostrare a suo favore "motivi di credibilità". Nel caso della Rivelazione divina è Dio stesso che compie dei segni, i miracoli, che sono da tutti i presenti immediatamente esperibili: "miraculum", da "mirari" (vuol dire qualcosa che si può vedere e che suscita ammirazione), cosicché tutti possono riconoscere il suo intervento diretto nella storia della salvezza dell’umanità. I motivi di credibilità sono quei fatti capaci di motivare, in coloro che sono chiamati a credere nella Rivelazione, una fondata certezza morale che si tratti proprio di una rivelazione divina, della Parola di Dio proposta da una persona che parla legittimamente in nome di Dio (il "profeta") o addirittura da Dio stesso fatto uomo (il "Verbo incarnato").

Purtroppo il fideismo si è trovato, negli ultimi due secoli, paradossalmente d’accordo con il razionalismo moderno nel negare ogni valore razionale ai "motivi di credibilità", infatti il razionalismo li svaluta in quanto li ritiene insufficienti ad aprire la via che porta alla fede nella Rivelazione, mentre il fideismo li svaluta perché li ritiene incompatibili con la libertà e la gratuità dell’atto di fede. Si deve riconoscere, invece, alla nozione "fede nella Rivelazione" l’implicazione piena e senza riserve della validità dei "motivi di credibilità", che costituiscono - assieme ai "praeambula fidei" - il necessario collegamento tra verità direttamente saputa e verità creduta per testimonianza altrui" (p. 86).

Valentina Pelliccia

 

NOTE:

1) Mons. Antonio Livi è Cappellano di Sua Santità - Socio ordinario dell’Accademia di S. Tommaso - Professore ordinario di Filosofia della conoscenza e Decano della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense

 

 

 

 

Da Per maggiori informazioni cliccare sul logo n.12 - maggio 2003 (per maggiori informazioni cliccare sul logo).
Pubblicato da "Profezie per il Terzo Millennio" su autorizzazione del
direttore di redazione di "Fede e Cultura", don Guglielmo Fichera.

 


 

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